mercoledì 27 novembre 2013

UN CARAMELLE REGALATO

Ogni oggetto fatto a mano ha una storia.
Questa è la storia di un Caramelle.
È una sciarpa che ha un nome e già questo le conferisce una dignità non comune, visto che quelle fatte in serie al massimo si possono permettere un codice a barre.
La tua no.
La tua è stata disegnata da una creativa speciale che si chiama Emma Fassio e che ha scelto di farla realizzare con filati altrettanto speciali.
Lo schema è semplice ma gioca molto sulla diversa composizione dei filati e come sono combinati tra loro.
I filati si chiamano ITO e arrivano dal Giappone. Sono di due tipi.
All’inizio e alla fine, in tutta la loro morbidezza ci sono due gomitoli di Sensai, un misto di mohair e seta dai colori brillanti – nel tuo caso vitaminici!
Le due Sensai si mescolano ad un certo punto con un filato che non le invidia per nulla: si chiama Urugami ed è un filo di carta avvolto da morbida lana. Ti assicuro: una cosa unica nel suo genere!  Nel tuo caso ho scelto il colore Navy per contrastare i due morbidi vitamici e combinarli in modo contrastante: fibra morbida, colore frizzante; fibra sostenuta, colore relax.
E poi alla fine di tutto questo arrivo io a mettere insieme il tutto: lo schema di Emma e i filati preziosi.
Me l’hai chiesta tu questa sciarpa, di solito rispondo “no, se vuoi ti insegno” ma se ti ricordi ti ho detto si quasi da subito.
Il motivo per cui di solito io non faccio per gli altri (se non per Federico o per regali di mia iniziativa) è perché capire un capo fatto a mano è cosa da pochi: un capo industriale è decisamente fatto meglio, più regolare, più facile da tenere. Ma un capo fatto a mano è una cosa diversa: bisogna averne una cura speciale, lavare a mano in acqua a 30 gradi, risciacquare subito subito e asciugare avvolgendo morbidamente in un asciugamano e quindi stendere in piano… te la senti di fare tutto ciò???
Dal canto mio ti dico che non dovrai preoccuparti se vedi fili che un po’ spuntano ogni tanto e in ogni caso mi avrai sempre a disposizione per sistemarli.

Allora… Manu, ti consegno il tuo Caramelle, spero che abbiate una buona relazione.

venerdì 22 novembre 2013

LA PAURA FA PAURA

Mercoledì mattina mio figlio ha vissuto un'avventura.
Siamo arrivati al pre-scuola alle solite 7.45 del mattino, notando all'ingresso del cancello un bel camion dei pompieri che più che allarmarci ci ha incuriosito come solo un camion dei pompieri può fare con un bambino di 7 anni.
Passiamo oltre, il commesso all'ingresso non c'è, ci accolgono le educatrici che ci dicono che sono scoppiati dei tubi ma non sanno di più.
Da mamma lavoratrice, valuto la situazione in 10 secondi netti: gli altri bambini ci sono e sono sereni, le educatrici sono tranquille, il riscaldamento funziona (da due giorni era rotto), serenamente bacio TopoFede sulla guancia, pretendo come sempre un bacio in cambio e lo lascio come ogni giorno.
Dieci minuti dopo essere arrivata in ufficio (quindi un'oretta dopo aver lasciato il figlio) mi squilla il telefono - la rappresentante di classe mi cerca, ahi ahi ahi...
Molto carinamente mi fa sapere che l'ala delle seconde è allagata e inaccessibile, che i bimbi arrivati all'orario ufficiale sono stati rimandati a casa, che le maestre sono comunque presenti e quindi il bimbo può rimanere a scuola ma... Non c'è bisogno di dirlo, impacchetto il PC e vado a prendermelo.

Mentre ci avviamo verso casa a piedi, Fede mi dice "sai mamma, oggi ho avuto paura, stavo per dire 'voglio la mamma' e mi veniva da piangere ma non volevo che mi prendessero in giro". Mi faccio raccontare tutto. Per farla breve, finito il tempo del pre-scuola, come ogni giorno è salito al primo piano per entrare in classe ma ha trovato un cartello con su scritto "accesso chiuso" (accesso? e che cosa capiscono i bambini di 6-7 anni? vabbè...) e si è trovato disorientato perchè non sapeva cosa fosse successo, non sapeva cosa fare e non aveva vicino un adulto a cui rivolgersi. Gli ho chiesto quindi cosa ha fatto dopo questo momento di sgomento e lui mi risponde "sono sceso e ho trovato la mia maestra all'ingresso, per fortuna".

Ho dovuto riflettere prima di rispondergli con calma perchè c'erano tante cose che meritavano di essere dette.
Ma la cosa che mi ha colpito è che la mia prima risposta istintiva sarebbe stata "ma non devi avere paura di queste cose!": sarebbe stato per me un modo per ridimensionare la questione, ma uno spiritello geniale mi ha trattenuto invece dal mortificarlo, perchè è così che lui si sarebbe sentito. Il messaggio che gli sarebbe arrivato sarebbe stato "è sbagliato quello che hai provato in quel momento".
La verità è che quella è stata per lui una reale situazione di disagio in un contesto in cui normalmente si sente al sicuro e in cui deve assolutamente continuare a sentirsi sicuro.
E allora decido di rivelargli una piccola grande verità: "Sai Federico, è normale e giusto che tu abbia avuto paura, ma hai saputo risolvere la cosa. E non perchè "per fortuna", come dici tu, hai trovato la maestra nell'ingresso ma perchè hai fatto la cosa giusta tornando nell'atrio a cercare un adulto che potesse aiutarti. Sono fiera di te.".
Ecco, invece di negargli un sentimento che per quanto negativo era in quel momento naturale e inevitabile, ho deciso di crescere la sicurezza nei suoi mezzi spiegandogli cosa aveva fatto di buono in quella situazione.
Non è stato facile, ho dovuto soffocare la risposta che tante volte in buona fede ho ricevuto anche io: per i miei genitori era il modo di farmi sapere che nelle situazioni in cui mi trovavo, in cui mi lasciavano loro erano consapevoli della mia sicurezza, che non mi avrebbero mai lasciato in pericolo. Anzi.
Ma ho deciso di rispondergli in quella maniera perchè mi sono messa nei suoi panni. Ho sentito per un attimo di essere un bambino spaventato di fronte ad una situazione inattesa.
E quando sono rientrata nei miei ho aggiunto "Anche la mamma ogni tanto ha paura di qualcosa (non esageriamo, eh... in fin dei conti sono sempre la sua Super Mamma). Ma è importante non avere paura della paura".

E arriviamo al secondo filone di riflessione.
Il Pensiero Comune identifica il coraggio come la capacità di non avere paura di niente.
Giusto o sbagliato? Semplicemente io non la penso così.
La paura è il sentimento istintivo che ci avverte del pericolo. Può essere piccola o grande, giustificata o no, oggettiva o irrazionale, visibile o presente solamente nella nostra testa.
Fatto sta che è un sentimento e non provare un sentimento - che sia piacevole o spiacevole - ci rende semplicemente più aridi.
Negarci un sentimento ci fa male.
Camminare di notte da sola in certe zone di Milano senza avere paura non è da coraggiose, è da inconsapevoli.
Quello che non sopporto personalmente del provare paura è averne paura. Lo so, ho appena detto che è un sentimento legittimo e bla bla bla...
Io ho paure, tante paure, mille paure, a volte così amplificate da non dormire per l'ansia. L'incertezza mi genera paura, la mancanza di controllo mi genera paura, la non pianificazione mi genera paura, stare su un palco addirittura mi terrorizza!
Eppure vivo tempi incerti, faccio scelte scomode, mi piego a situazioni imprevedibili, canto (almeno 2 volte l'anno) davanti ad un pubblico...
Perchè non voglio che la paura sia un limite per me. Voglio che funzioni come monito, per allertare tutti i miei sensi e prepararmi all'imprevedibile, ma non come freno.
Soffro di vertigini al punto da non riuscire a stare in piedi su una sedia. Ma da tempo sto meditando di provare una volta nella vita il deltaplano.
Ho un cantiere aperto sulla mia "paura di lasciarmi andare" che non nego, che cerco di elaborare con più o meno successo, dipende da quanta energia posso mettere in questo.
La paura non deve allontanarmi dai miei sogni o dai desideri, non deve fermare la mia vita, non deve uccidere la speranza.

E allora fiera del mio Uomino, della sua reazione al momento e del fatto di aver avuto voglia di raccontarmelo, la sera mi sono presa un momento speciale con lui, gli ho rubato la scatola dei millecolori e gli ho fatto "il Diploma del Coraggio".
E gli ho spiegato in cosa era stato realmente coraggioso.

Perchè il coraggio - a casa nostra - è avere paura e riuscire a gestirla nel migliore dei modi.

Oppure tenersela serenamente e riderci sopra: nessuno mi convincerà a rimettere gli sci e a prendere di nuovo una seggiovia! Posso vivere senza! ;-)
A meno che la seggiovia non serva per raggiungere una baita in cui facciano lo stracotto con la polenta...

lunedì 4 novembre 2013

IL BAR DELLE GRANDI SPERANZE di J.R. MOEHRINGER

Chi frequenta questo piccolo post sa che non parlo quasi mai di libri, parlo di lettura ma non di libri.
Perchè i libri mi piace leggerli, tenerli intimamente per me. Non pretendo che piacciano anche agli altri, non mi interessa. Anzi forse mi spaventa il fatto che non possano piacere allo stesso modo a chi mi piace come persona: mi sentirei quasi incompresa, creerebbe distanza là dove non ne voglio.
E poi, soprattutto quando mi piacciono molto, non riesco a tradurre mai con le mie parole piccole la grandezza delle emozioni che alcuni libri mi fanno provare.
E' un po' come quando bevo un buon vino, uno di quelli che ti riempiono la bocca al primo sorso e ti fanno venire voglia di rimanere lì a pensare, perchè sai già che il secondo non sarà la stessa cosa. Ecco, io bevo uno di quei vini e poi dico "mi piace", di più non riesco.

Ma per questo libro in particolare voglio fare uno sforzo. E' arrivato troppo a fondo nel mio animo per tanti motivi, non ultimo il fatto che l'autore è bello, bravo, simpatico e intelligente! Momento di debolezza, scusate.

Quasi tutti i libri che leggo hanno una storia, una MIA storia. Spesso queste storie iniziano in libreria, con una quarta di copertina interessante o con un titolo accattivante. Da questi piccoli spunti nascono grandi affinità elettive e diventa difficile uscire dalla libreria senza aprire il portafoglio.
In questo caso la storia è più articolata e nasce da un'evento del Festivaletteratura 2013. Avevo deciso quest'anno che avrei seguito il percorso delle biografie: tutti eventi che parlassero di come si racconta un percorso lungo una vita. Ed è così che sono arrivata all'evento in cui Beppe Severgnini chiaccherava con l'autore della biografia di Andrè Agassi, uno di quei libri arrivati in casa dalla copertina, che poi mi aveva catturato per la bellezza drammatica della storia.
Ebbene, fino alla pubblicazione del programma del Festival non sapevo chi fosse il vero autore del libro e solo grazie al breve profilo ho scoperto che tra le altre cose era un premio Pulitzer.
Curiosity killed the "Cats".
Da lì, comprare il biglietto è stato un attimo (un vero colpo di fortuna, come sempre per gli ospiti illustri del Festival) e sono arrivata a far la coda fuori dal cortile di Palazzo Ducale senza altra informazione, perchè mi piace arrivare un po' ignorante ed uscire da questi incontri sentendomi un po' più ricca dentro.
La chiacchierata tra i due (superato lo sconcerto provato scoprendo che oltre a Beppe c'era il "fratello sconosciuto" di Rob Lowe... non sono abituata agli scrittori affascinanti!) è stata arricchita da un bravissimo Valerio Mastrandrea che leggeva per noi. Tra le varie cose da lui lette c'erano appunto alcune pagine di questo libro, di cui poi Severgnini e l'autore hanno svelato altri segreti.
E' un autobiografia, ma non solo. E' la storia di una certa America, ma non solo.
Alla fine di quelle 484 pagine per me è soprattutto la storia di una madre single e di un figlio cresciuto da sola, con mille pensieri, con tanta forza, con tanta speranza, tra errori e rinascite. E leggere di questo figlio che crescendo capisce, capisce tutto, gli errori, le bugie a fin di bene, l'essere sempre lì quando hai bisogno mi ha commosso fino alle lacrime, pagina dopo pagina.
Già durante l'evento, il tema era stato anticipato e con poche parole avevo iniziato a piangere in silenzio. Ed è questo il motivo principale per cui ho dovuto comprare il libro prima di andarmene da lì.
Ma quel libro è tante cose, questa è solo la parte che io ho vissuto più da vicino.
E' scritto benissimo, inutile dirlo, è una galleria di ritratti molto particolari, mille personaggi uno diverso dall'altro, ognuno con una storia mai lasciata così, sospesa tra le pagine.
Arrivata a nemmeno un terzo del libro ho avuto bisogno di una matita a farmi compagnia, a sottolineare le frasi che mi piacevano di più: il commento di quel personaggio, la battuta volgare che vorrei avere il coraggio di dire ogni tanto, una situazione che sentivo vicina resa con estrema poesia, una frase che vorrei ricordare per quando avrò bisogno di fare coraggio a mio figlio o di spiegargli i fatti della vita.
C'è zio Charlie, c'è Don, c'è McGraw, Jimbo, c'è persino Frank Sinatra.
Si piange, si ride, si diventa un po' amici di tutti. Come si fa quando si beve in compagnia.
Ma guarda un po': è la storia di un bar. Che fosse proprio questo l'obiettivo dell'autore?
Decidetelo voi, io vi aspetto al bancone per un Martini alla fine.