domenica 23 ottobre 2022

#walkingday2022

Finalmente è arrivato questo giorno, dopo 2 anni.

Lo scorso anno ho dovuto rinunciare a causa di un brutto attacco di sinusite anche se ero molto più allenata di oggi, ma quest’anno ho fatto finta di niente e sono partita con gli altri 1000 (credo, più o meno).

La formula prevede il percorrere per due volte un anello di 5 km. Alla mia prima volta (2 anni fa) mi ero fermata al primo giro mentre guardavo invidiosa quelli che continuavano e quindi mi ero ripromessa di essere tra loro prima o poi. Mi sono allenata, con il caldo, con il freddo, con la pandemia, all’alba e al tramonto. Ho imparato a riconoscere i segnali del mio corpo e della mia mente e quindi eccomi qua, stamattina sono partita.

Fino ai 5 km tutto benissimo, faccio tempi favolosi, raggiungo una velocità di punta al quarto km di 6,8 km/h e mi sento una farfallina. Iniziò il secondo giro.

Primo dramma: perdo la signora davanti a me che mi dà il passo giusto. Anzi, tento di seguirla dopo che lei abbandona suscitando un coro urlante da parte dell’organizzazione perché sto sbagliando percorso. Chiedo scusa a tutti - anche alla signora che si è spaventata per le urla - e riprendo sulla retta via.

Al km 7 il gruppo davanti a me decide di tagliare, quelli dietro si lamentano, io rischio di sbagliare strada perché mi sudano le palpebre e non vedo le frecce da seguire. 

Al km 8 vedo passare il mio tram e la mia mente comincia a pensare “perchè lo fai???”.

Al km 9 il mio ginocchio sinistro invoca la Madonna contro la mia volontà, ai 9,5 si aggiunge l’anca sinistra al coro ma li zittisco perché manca troppo poco all’arrivo. A casa poi parliamo di quel mezzo centimetro abbondante che mi manca per camminare in modo simmetrico. 

Al km 10 realizzo che sono bravissima perchè ce l’ho fatta in un’ora e 33 minuti ma dov’è l’arrivo? Dove cippalippa lo hanno messo l’arrivo??? Ho sbagliato strada??? Intravedo in lontananza le magliette rosse che si sono fermate ai 5 km e nel frattempo maledico quelli che fanno il brunch al bar del parco. Indietro però non si torna, posso solo andare avanti. 

Nell’ultimo km le panchine mi chiamano che nemmeno le sirene con Ulisse. Io cammino pericolosamente vicino alle verdi tentazioni, il pericolo è legato al fatto che a) potrei sedermi e stare lì fino a sera; b) rischio di inciampare perchè la vista è sempre più annebbiata dal sudore e dal calo di zuccheri. Rimedio mangiando almeno 3 moscerini e grazie alla carica proteica tengo duro.

Alla fine taglio il traguardo mentre nelle orecchie Lady Gaga canta “the edge of glory” - il mio Spotify mi vuole bene - e mi si stampa un sorriso sulla faccia che sembra pietrificato ma è più sincero che mai.

Gambe di legno, mi avvicino al ristoro come all’oasi nel deserto e poi realizzo che devo fare un altro chilometrino per andare a prendere il tram… vabbè, a casa c’è il bigolo della mamma che mi aspetta. 

Baci (disidratati) e abbracci (sudati e puzzolenti) e ci vediamo l’anno prossimo.

lunedì 18 ottobre 2021

DI COLAZIONI AL BAR

 

Un post di oggi su FB della “The Pozzolis Family” mi ha risvegliato questa sera un sacco di ricordi.

Mai fatto colazione al bar da piccola, al massimo la brioche dopo il prelievo a digiuno mentre papà si prendeva un caffè. Giravano pochi soldini in casa ed eravamo abituati a risparmiare a partire dalle piccole cose.

Quando sono cresciuta e i miei avevano negozio in centro città la colazione al bar era sinonimo di lavoro: mi alzavo presto la mattina per andare con loro in negozio a lavorare e dopo un’oretta chiedevo “posso andare a fare colazione?”. Era un po’ la mia ricompensa.

Arrivata a Milano, la colazione al bar era quella del venerdì quando in appartamento erano finiti i biscotti e non si faceva più la spesa fino al lunedì successivo: al bar dell’università ti concedevi brioche e cappuccino trascinandoti dietro il trolley. Oppure la mattina dell’esame quando giravi il cucchiaino nel cappuccino e mentalmente ti ripetevi le ultime cose che avevi studiato.

Poi il bar è diventato per me sinonimo di caffè. Il 90% delle volte in cui entro, solo quello prendo: in piedi al banco, veloce, un sorso massimo due sperando che la tazzina non sia bollente.

Finchè non è arrivato Federico. Per lui la colazione al bar è sinonimo di viaggio, difficilmente la facciamo quando siamo a Milano, anche se io continuo a prendere i miei caffè ogni volta che esco e conosco quartiere per quartiere i caffè e i servizi offerti (qualità, acqua a parte, cucchiaino di panna...).

Però se gli chiedi "ti ricordi la prima colazione al bar" ti risponde sicuro "il primo giorno di asilo". Non è un suo ricordo vero, ma l'avevo fotografato e gliel'ho raccontato mille mila volte: il barista gli aveva fatto la tazzina con dentro la schiuma di latte e una spolverata di cacao. E insieme un pain au chocolat.

Quando ha compiuto 6 anni l'ho portato a Parigi e lui si ordinava da solo "pain au chocolat, merci" a colazione: sapeva dire solo quello in francese e tutti quelli a cui lo chiedeva gli facevano grandi sorrisi, perché la pronuncia era terribile (è difficilissimo dire la nasale “ain” a 6 anni!) ma si faceva capire ed era fiero ed orgoglioso quando lo diceva.

Persino in boulangerie lo avevo mandato avanti dandogli i soldini contati per comprarsi il suo dolcetto. Il signore dall’altra parte del banco gli aveva risposto, nel tentativo bonario di fare conversazione, e lui aveva fatto una di quelle facce che gli venivano così bene da bambino – sgranata di occhi e boccuccia tremante – perché per un attimo aveva avuto paura che non gliel’avrebbero dato. Io ero dietro di lui ad osservare, gli ho messo una mano sulla spalla per confortarlo e lui ha ripetuto “pain au chocolat s'il vous plaît”, un po’ più forte, un po’ più deciso, allungando la mano con i soldini. Mi ricordo che il boulanger a quel punto mi ha guardato e mi ha detto “le petit a du caractère” e gli ha fatto un bel sorriso con i baffoni bianchi porgendogli quanto richiesto mentre Federico si allungava in punta di piedi per posare i soldini e prendersi quello che gli spettava. Poco importa che la cassa fosse da un’altra parte, il signor Baffuto ha preso i soldini con una mano e gli ha allungato l’altra mano per stringerla ad un piccolo uomo. Che si è girato, mi ha dato la brioche perché io la custodissi e si è allungato di nuovo sopra il bancone in punta di piedi per farsi stringere la manina, dicendo “merci, au revoir”. E poi è uscito tutto fiero dal negozio mentre io lo seguivo ancora con il suo tesoro in mano.

Ecco, queste colazioni ce le ricordiamo bene.

E qualche settimana fa, quando per la prima volta è partito in treno per andare a trovare gli amici del mare da solo, mi ha chiamato mezz’ora dopo essere uscito di casa e mi ha detto “mamma, sto bevendo un caffè al bar della stazione”. La voce è quella di un uomo ormai, non era certo il suo primo caffè e non oso pensare quanto zucchero abbia messo in quella tazzina. Ma era il suo primo caffè al bar da solo e sono sicura – anche se non l’ho vista - che la sua espressione era la stessa di quel bambino di 6 anni che camminando sui marciapiedi di Parigi si gustava il suo meritatissimo pain au chocolat.

venerdì 1 gennaio 2021

#obiettivo10km

E' nato tutto per caso.

Tu chiamala se vuoi "crisi di mezza età" ma la verità è che il primo lockdown su di me ha lasciato segni importanti, e solo nel corso dell'estate - trovandomi in una situazione più serena - sono riuscita ad ammettere e riconoscere le ferite ed è proprio da questa consapevolezza che ho deciso di ricostruire, ricostruirmi, riconquistarmi, piccoli pezzetti alla volta.

Ad esempio facendo cose che normalmente (parola che andrebbe abolita dal calendario) non avrei fatto. Come partecipare da sola al "Walking day Milano 2020" lo scorso 18 ottobre, senza nessun tipo di allenamento.

Ho pensato: cammino sempre, mi piace molto, non ci sono tempi o misurazioni, cosa vuoi che sia. 

Addirittura pensando che tra la scelta di fare 5 o 10 km avrei sicuramente fatto i 10, cosa vuoi che sia per una che nei weekend ne fa più di 12 in giro per Milano.

"Cosa vuoi che sia" è una frase che non utilizzerò mai più.

Perchè se è vero che a livello fisico fare 12-15 km in un giorno guardando le vetrine o andando per musei, fermandosi a mangiare, andando in giro come turista è una cosa che riesco a fare senza problemi, fare 5 km in un'ora per una alta due mele e poco più - che non può sfruttare lo stacco di gambe - senza allenamento non è per niente facile, no, figuriamoci 10!

Quindi, anche se l'esperienza è stata molto bella mentre tornavo a casa riflettevo sulle mie opzioni.

Opzione 1. Coda tra le gambe, lasciamo vincere la pigrizia (ma anche un po' la scarsa autostima), non usciamo dalla comfort zone, #tantoormaihoquasi50anni, #checosavadoacercareancora?

Opzione 2. Questo è solo l'inizio e se sono riuscita a farlo in queste condizioni, posso sicuramente fare di più, #obiettivo10km.

Non è stata una scelta semplice, non in questo momento, non in questo schifosissimo anno in cui l'autoindulgenza e la paura di fallire sono sempre lì a giustificare tutto. Ma ho scelto di volermi bene anche se confesso che ho sempre tenuto l'opzione 1 nel retrocranio. 

Nel periodo 18 ottobre - 30 ottobre ho affrontato il tapis roulant, ho cominciato a cancellare l'alibi "lavoro tanto, non ho tempo". Tre volte in 12 giorni, non era esattamente quello che volevo. 

Poi però ho fatto un'altra scelta drastica: me ne sono andata da Milano e mi sono trasferita per il momento a casa dei miei causa COVID. E qui mi ha trovato l'inizio della zona rossa.

La prima cosa che ho fatto una volta qui è stata approfittare delle ciclabili/pedonali che ci sono attorno ai laghi di Mantova che sono estremamente belle e tenute bene. In due giorni ho fatto 11 km ad una velocità media di poco più di 5km/h. La domenica pomeriggio avrei voluto stendermi sul divano e basta così. Ma poi il male alle gambe è passato. E mi sono ritrovata ad aspettare con ansia il weekend successivo.

Da quel momento in poi però è diventato vietato lo sconfinamento comunale e quindi ho cominciato a camminare in "modalità criceto", girando come una pazza le vie di paese, conoscendone tutti gli angoli, cercando sempre di modificare i percorsi per non far vincere la noia. Godendomi gli squarci di sole, l'aria frizzantina, la nebbia folle, le zolle rivoltate tipiche dell'inverno di campagna. E ho cominciato a provare piacere, e a infrangere limiti (miei), e a trovare la forza dentro per andare avanti.

Uno dei momenti più belli è stato riuscire a superare l'ora di allenamento da sola. Come ho fatto? Mi sono allontanata da casa prendendo una direzione per 40 minuti, a quel punto per tornare indietro dovevo camminarne almeno altri 40. E ho scoperto che ce la potevo fare. 

Poi ho cominciato a zompettare più velocemente. Non pensavo che il mio corpo potesse superare i 5,5km/h e invece sono arrivata a 6 (adesso sono a 6,2 con punta di 6,4). 

I 10 km li avrei potuti raggiungere una ventina di giorni fa ma ho scelto di non farlo, di girarci intorno. Per due diversi motivi: non volevo legare questo risultato al gir in giro di paese (per la modalità, non il per il paese); avevo paura di mollare appena raggiunti i dichiarati 10km.

Poi il 20 dicembre l’ho fatto. Sono partita dal parcheggio dell'Anconetta e sono arrivata al parco del Mincio, allungando il giro già testato la settimana prima. Lo sapevo già che ci sarei riuscita, ma mi sono fatta il regalo di farlo quando volevo io, dove volevo io. Proprio prima di Natale, guardando l'acqua che mi piace tanto.

E mi dico "Brava!" con  tanto di punto esclamativo alla fine. Perchè ci sono riuscita, perchè il mio corpo mi restituisce buone sensazioni. Perchè mi riservo tempo per me da sola, tempo nel quale riesco ad essere sincera con me stessa, comprensiva quando serve ma anche resiliente - perchè non sempre il corpo risponde come vuoi, e questo è un dato di fatto, ma non deve diventare un alibi. Mi dico "brava" ad alta voce mentre cammino, a volte canto senza accorgermene, a volte rido, a volte piango, faccio come mi viene naturale fare. E ho scoperto che quando sono sincera e libera è più il tempo che passo a cantare e a ridere che non quello in cui mi trovo in testa pensieri chiusi e tristi. E questa è una cosa di me che non ero più sicura di avere dentro.

E fisicamente?

Non sono dimagrita. Camminare fa dimagrire ma solo se lo fai per un'ora tutti i giorni e contemporaneamente smetti di mangiare male. Io cammino una/due volte alla settimana e poi mangio il risotto con le salamelle fatto da me. Mi va bene così, davvero bene, facciamo un obiettivo alla volta.

Ho scoperto che vengo fuori alla distanza: mi sono accorta che più cammino e più vado veloce e meno sento la fatica. C'è un momento, dopo i 30 minuti, in cui il tempo mi passa di più e comincio ad avere la sensazione di poter fare tutto. Mi sento leggera, le spalle si abbassano e si aprono, la testa si alza, quasi mi si allunga la colonna vertebrale. A volte mi viene l'istinto di mettermi a correre ma non lo voglio fare, non è il mio obiettivo. La seconda metà dei km che faccio ha sempre una media più alta della prima metà. A rallentarmi può essere il vento contro, a volte sono semplicemente io contro le mie resistenze e la mia ruggine. 

Ho definitivamente compreso che non sono fatta per la velocità ma per la resistenza, non mi è mai piaciuta la discesa mentre godevo nel far fatica con gli sci da fondo. Perchè ho bisogno di guardarmi attorno. Corro sempre, la velocità per me è legata al lavoro e alle incombenze, ai doveri. Nel tempo per me allora scelgo una velocità diversa, quella che non mi impedisce di fare le foto alle papere o ai gatti, o di fermarmi a salutare la gente o di osservare un fiore o una ragnatela con la brina. Quella che mi fa tremare le chiappe dallo sforzo ma non mi toglie il fiato. Anzi, mi da la possibilità di respirare meglio (nonostante la mascherina). 

Ho confermato il mio essere “morning person”: le mie performance migliori sono al mattino, nel pomeriggio faccio sempre più fatica.

Adesso continuo, ritorna il divieto di sconfinamento comunale ma la campagna in questo mi sorregge e mi apre strade nel massimo rispetto del distanziamento.

Adesso mi pongo un obiettivo diverso e più ambizioso, per il quale però mi serve sicuramente più tempo. Prima tappa: Francigena in solitaria, km da definire (legati al tempo che potrò dedicarmi). Seconda tappa: Cammino di Santiago (almeno 10 giorni), sempre in solitaria, non so come non so quando ma comincio a pensarci seriamente.

A pensare che sia possibile.


martedì 14 aprile 2020

14 APRILE 1980

Sai, quel giorno di 40 anni fa io me lo ricordo. 
Cioè, non mi ricordo che giorno fosse – meno male che le ricorrenze ormai me le ricorda Faccialibro, soprattutto in questo momento in cui tutti i giorni sono uguali – però mi ricordo che giorno è stato per me.
Ero una sua accanita fan (anche se allora bastava dire "lettrice"), le filastrocche le sapevo quasi tutte a memoria, i suoi racconti erano tutti nella mia testa, i libri anche, avevo letto già “C’era due volte il barone Lamberto” che mi aveva messo la voglia di andare a vedere il lago d’Orta (un viaggio per noi della bassa Padana) e andarlo a conoscere, là a casa sua dove lo immaginavo in uno studio pieno di mobili antichi e con tanti fogli sparsi qua e là. Il disordine della creatività a portare scompiglio in un ambiente solenne,  dove vedevo il mio eroe passare le sue giornate scrivendo per noi comuni mortali.
Lui era la mia rockstar. Se qualcuno mi avesse chiesto allora “chi ti piacerebbe conoscere di famoso?” avrei fatto sicuramente il suo nome. E subito dopo Mario Pastore.
E gli avrei fatto un sacco di domande, estremamente intelligenti ed intellettuali come quelle che tipicamente fa una bambina di 8 anni: “sei mai stato in Inghilprussia?”, “hai mai provato a mangiare l’inchiostro per diventare più intelligente?” e altre cose così importanti. E sono sicura che lui avrebbe avuto delle risposte rilevanti, che avrebbero completamente stravolto la mia vita.
Capisci cos’è stato quindi quel giorno per me? Per la prima volta il crollo dei miei sogni di bambina, la mia rockstar che spariva, non avrei più potuto incontrarlo e parlare con lui.
Un sentimento così importante verso un personaggio pubblico l’ho provato solo anni dopo, alla notizia della morte di Freddie Mercury.
Per questo motivo fin da quando ne hai memoria ti ho sempre portato ad incontrare gli autori dei tuoi libri preferiti dove possibile e – credimi - mi sono sempre emozionata come te quando avevi l’occasione di fare la tua domanda, di avere il loro autografo su un libro, di guardare loro negli occhi anche solo per dire “grazie”.
Ecco, anche io avrei voluto la possibilità di dirgli “grazie”. Dei momenti felici che ho vissuto, dei viaggi fantastici che ho fatto senza muovermi dal letto, degli amici incredibili che mi ha dato la possibilità di conoscere, di Giovannino Perdigiorno, di Alice Cascherina… e poi ancora oggi vorrei chiedergli se davvero a forza di stare nell’acqua ti crescono le pinne e diventi un pesce, perché io ci ho provato un sacco di volte ma forse non ci ho creduto abbastanza. 

sabato 25 gennaio 2020

BENTORNATA A CASA!


TopoFede adolescente (forse dovrei smettere di chiamarlo così) in piena fioritura.

Mai come in questo periodo provo empatia nei confronti dei miei genitori e la voglia di chiamarli tutti i giorni per chiedere scusa per la mia adolescenza.
Non che abbia avuto chissà quali grilli per il capo, ma ho ben presente la mia faccia di allora, il mio “muso” quotidiano, il mio continuo nonpuoicapire-pensiero. Quindi in definitiva, quasi quasi, a loro è andata bene.

A dirla tutta, sta andando bene anche a me (e qui valgono tutti i gesti scaramantici del mondo) ma è periodo di confronto continuo tra i miei “no” e i suoi “e allora tanto vale che mi chiuda in casa e non esca più”. Sospiro (di entrambi).

Precisiamo, i “no” di sempre sono metabolizzati: a volte mi tocca ribadirli, a volte invece è lui che agisce proattivamente (“non te l’ho nemmeno chiesto, tanto mi avresti detto di no”). Sono quelli recenti che generano confronto. Quelli vanno giustificati, il perché-lo-dico-io non va più bene, e va fatto bene, con piena consapevolezza e tanta energia da parte mia.

Insomma, la sera arrivo a casa dopo che sono sveglia da 14 ore e ho parlato per gran parte del giorno con mezzo mondo. Apro la porta e il primo scoglio da superare è il resoconto della tata su commissioni, compiti, le sue malattie, le malattie di sua madre, le foto che le hanno mandato le amiche. 
Passato quello, c’è la gatta che miagola con passione come se non mangiasse da 3 giorni (mesi, forse!) mentre sono passate appena 4 ore. 
“Ma Fede dov’è?”, chiedo sia alla tata che alla gatta. 
“In camera sua”, mi risponde la tata. La gatta rimane in attesa. 
Forse fa i compiti, forse la cartella, forse sta suonando ma è sempre in camera sua. E’ il modo in cui riemerge da camera sua che mi anticipa l’andamento della serata. E’ il momento che ogni sera attendo con ansia.

CASO 1: arriva di corsa in cucina, mi corre incontro, mi abbraccia mentre ancora non ho appoggiato lo zaino del pc e mi dice “ciao mamma, sto finendo di…” pieno di energia e sorridente. Io sorrido di rimando e si allarga nella mia mente la consapevolezza che sarà una buona serata.

CASO 2: arriva con le mani nelle tasche dell’immancabile felpa, si avvicina, bacia distrattamente con sguardo disperso nel nulla, “ciao…” biascicato. A questo punto è tutto nelle mie mani: posso chiedere “tutto bene?” e, dato il la, tutto il mondo livoroso nascosto dietro lo sguardo spento mi si rovescia addosso travolgendomi come una valanga mentre mi chiedo interiormente se ho la provvida botticella da montagna nascosta nello zaino, perchè ho ancora lo zaino del pc sulle spalle. Oppure mi giro e lo faccio parlare per 10 minuti alla mia schiena, sperando che poi vada meglio. La seconda opzione non sempre funziona, quasi mai.

CASO 3: non arriva proprio, lo vado a stanare nel suo rifugio. Se mi va bene, è andato un po’ lungo con i compiti e quindi è davvero serenamente impegnato, nel qual caso si torna al caso 1.
Se invece non alza nemmeno gli occhi, non risponde se non a monosillabi, la tentazione è quella di fare finta di niente, fare tre passi indietro per uscire dalla sua stanza (senza dare le spalle per precauzione), inciampare nella gatta che è rimasta ad osservare sulla porta, rovinare all’indietro salvata dallo zaino del pc che non ho ancora appoggiato e mi protegge come il carapace di una vecchia testuggine, rivoltarmi su me stessa e strisciare sui gomiti a mo' di navigato marines per allontanarmi dalla zona della probabile deflagrazione, chiudermi nel bagno per avere accesso ai fondamentali bisogni fisici e stare lì, al riparo, recuperando le energie necessarie per affrontare l’impegnativo confronto.

E invece no, rimango lì, al centro della sua stanza quel tanto che basta a fargli alzare la testa e mostrarmi tutta la rabbia e la sofferenza che ha negli occhi. Niente di grave, sia chiaro, solo che una serie di inconvenienti quotidiani alimentati dall’ormone, conditi dal nonpuoicapire-pensiero che conosco bene, gli hanno creato un tale imbroglio di emozioni da non riuscire nemmeno a tirarle fuori a parole.
So bene di cosa si tratta, ci sono passata anche io, me lo ricordo.
“Dai, finisci che poi mangiamo”. E parliamo, aggiungo tra me e me.
Ritorno sui miei passi, poso finalmente lo zaino. La gatta ha capito che marca male e quindi è passata dai miagolii di fame smisurata a delicati “miu” che mi fanno sentire compresa.
Il gesto di nutrirla in quelle sere mi conforta, per garantire la sua serenità basta poco.
Afferro il cellulare dalla borsa e chiamo mia mamma.
“Ciao mamma, tutto bene?” (Scusami, scusami, scusami…)

mercoledì 25 settembre 2019

GRETA E GLI ALTRI (DI CUI UNO IN CASA MIA)


Dato che siamo una famiglia che ascolta (selettivamente) la radio e guarda (selettivamente) i telegiornali, è praticamente impossibile per noi ignorare Greta Thunberg.

Quando sono iniziati i #Fridaysforfuture, l’allora dodicenne di casa mi fece una scenata perché voleva scendere in piazza, perché i suoi amici (alcuni) sarebbero andati, perché la mia generazione aveva rovinato il loro mondo.
L’ho lasciato parlare con la sua foga da 12enne, pensando con amore “ci siamo, è arrivato il suo momento”.

Si perché ognuno di noi, chi più e chi meno, ha vissuto il momento “cambio il mio mondo”, quel periodo in cui gli ideali sono grandi e importanti, i sogni hanno sempre la meglio sulle reali opportunità e si rifiuta la vita tranquilla che i nostri genitori hanno sempre voluto offrirci, facendo spesso tanti sacrifici per farlo.

Ben conscia di tutto questo, ho tenuto però il mio ruolo di madre e ho rilanciato.

“Benissimo, però se ci credi così tanto allora si cambia vita: no ai vestiti firmati ma nemmeno a quelli low cost, pochissima carne rossa, si mangia quello che c’è, a morte i fast food…” E man mano che andavo avanti e facevo esempi concreti oltre al momento della manifestazione lo vedevo fare passi indietro e prendere coscienza che, va bene urlare slogan ma, non basta quello. Abbiamo letto insieme le notizie sullo stile di vita di Greta, chi è, cosa fa, perché lo fa. E abbiamo cominciato a farci domande e darci risposte. Del tipo “lei non va a scuola, ma questo per noi non va bene”, “lei non prende l’aereo, noi lo prendiamo poco ma siamo disposti a rinunciarvi completamente?”. Poi abbiamo anche preso coscienza di quello che già facciamo: la raccolta differenziata (si, anche l’olio esausto e le gite all’isola ecologica quando serve), muoverci spessissimo con i mezzi pubblici anche quando la macchina sarebbe più comoda e veloce, diminuire la quantità di plastica che acquistiamo preferendo cibi sfusi e freschi e altre piccole cose, insieme a tutte quelle che possiamo fare ma non facciamo.
E alla fine il mio lapidario “Comunque a 12 anni in manifestazione da solo non ci vai, ti accompagnerei volentieri ma non posso assentarmi dal lavoro”.

Fine.

Fino alla scorsa settimana.
Quando torno a casa una sera e mi sento chiedere “Potresti informarti a che età posso iniziare a fare i campi estivi di volontariato?”. Lascio perdere i dettagli su quanto detto dopo questa domanda, un bel confronto di buon senso ma poco rilevante in questo momento.
E di nuovo questa settimana “Venerdì voglio andare in manifestazione” e di nuovo il mio no per gli stessi motivi dello scorso anno.

Tutto questo succede in casa mia, mentre sui social questa ragazzina viene massacrata da mille commenti inappropriati. Perché è brutta, perché è disturbata, perché è manipolata. Io leggo e poi penso al “Gretino” che ho in casa, che ha paura che il suo mondo sparisca nel 2050, che ripudia la guerra anche quando è lontana, che vorrebbe fare ma si sente frenato da me (quando in realtà è frenato da sé stesso e dalle sue contraddizioni, come è normale alla sua età). Lo lascio sognare, lo lascio proclamare ma non perché so che si spegnerà da solo ma perché è giusto che alla sua età inizi a reclamare il suo futuro ideale. Poi le sue scelte le farà e io spero che abbia la forza per mantenere alcuni dei suoi grandi ideali. Ma perché lo devo attaccare, denigrare, mortificare adesso che ha ragione. Adesso che l’artefice del suo destino sono io, che chi plasma il suo mondo futuro -sbagliando tutto- sono gli adulti. E io prendo di nuovo energia da questa sua voglia di essere diverso, discuto e rimetto in discussione le mie scelte e i miei comportamenti e cerco di accompagnarlo verso un mondo che spero sia migliore di oggi.

Ecco perché io guardo Greta con ammirazione, con l’ammirazione di una madre. Perché sinceramente la dietrologia non mi interessa, perché anche se fosse solo un simbolo, Greta rappresenta i nostri figli e in alcuni di loro induce anche pensieri e riflessioni più nobili di quanto noi genitori, con i sogni sgretolati dalla vita reale, siamo in grado di ispirare.

Ben venga quindi Greta e anche le sue contraddizioni.

Come mi disse una volta un prete particolarmente ispirato “nessuno di noi è santo e sarebbe strano volerlo essere, ma le vite dei santi sono qui per ispirarci ad essere migliori”.

Un’ultima cosa: la mia Greta Thundberg si chiamava Cat Stevens.
“How can I try to explain ‘cause when I do it turns away again
it's always been the same, same old story
from the moment I could talk I was ordered to listen
now there's a way and I know that I have to go away
I know I have to go

sabato 24 marzo 2018

#rubatoamiofiglio

Rubo i libri a mio figlio, ne ho letti 5 di fila nelle ultime due settimane.
Un po’ perché voglio sapere cosa gli propongo come letture, un po’ perché i caratteri più grandi mi permettono di leggere in tram senza mettere e togliere gli occhiali da presbite, ma soprattutto perché sono belli, interessanti e scritti bene.

Mercoledì scorso a teatro abbiamo visto un adattamento di “Perché mi chiamo Giovanni” di Luigi Garlando, portato in scena da una bravissima Eleonora Frida Mino. Amiamo molto il libro, insieme a “Io, Emanuela” di Annalisa Strada li proposi a Federico per ricordare i 25 anni dalla morte di Falcone e Borsellino. Uno il 23 maggio, l’altro il 19 luglio dello scorso anno. L’adattamento teatrale è perfetto, rispettoso nelle immagini e nelle parole e dotato dell’intensità che avevamo percepito in quelle pagine ma che è diventata realtà sul palco. L’esperienza dopo lo spettacolo altrettanto interessante anche se non nuova per certi versi. Autore e attrice che si prestano a rispondere alle domande, che raccontano ai ragazzi da dove vengono le idee e come grazie alla passione si possono concretizzare. Grazie ai vari incontri con l’autore proposti da me e dalla scuola, non siamo nuovi a certe esperienze. Ma le apprezzo sempre.

Mi ha colpito molto una frase di Luigi Garlando: “quando scrivo mi sento molto responsabile, penso che quello potrebbe essere il primo libro che un ragazzo legge e quindi se gli piace o no potrebbe determinare il suo amore per la lettura”. Perdonatemi, non credo di aver riportato le esatte parole ma di certo il senso.
Questo è un altro dei motivi per cui leggo i libri che propongo a mio figlio. Perché voglio cercare di capire se l’autore ha scritto con questa responsabilità e se posso affidare al suo scritto la passione per i libri che ho cercato di trasmettere a mio figlio da quando era piccolissimo, con forza, impegno e tenacia.
La risposta è quasi sempre si, che bella sensazione. Bella perché mi sento meno sola nel ruolo di educatore e formatore di questo piccolo uomo, perché non sono l’unica a “predicare” su certi temi, perché c’è anima, azione, divertimento, ottima scrittura, perché anche io torno ragazza nel cuore. Perché spesso trovo parole che ho cercato dentro di me per comunicare con lui e allora gliele sottolineo per fargliele percepire. Allo stesso modo, quando tocca a lui leggere, ne trova altre e così arricchiamo insieme il nostro vocabolario emotivo.

Poi capita che un libro sia piaciuto a me ma non a lui o viceversa. Ma non è un dramma, anzi. E’ confronto.
“Non mi è piaciuto” o “mi è piaciuto” precedono sempre un perché. E le ragioni vanno rispettate. Ci si ascolta reciprocamente e ci si rispetta nel dialogo anche quando le idee divergono. Senza modificare i nostri sentimenti reciproci, anzi avvicinandoci di più nella diversità. E questo è un enorme insegnamento di vita.