sabato 25 gennaio 2020

BENTORNATA A CASA!


TopoFede adolescente (forse dovrei smettere di chiamarlo così) in piena fioritura.

Mai come in questo periodo provo empatia nei confronti dei miei genitori e la voglia di chiamarli tutti i giorni per chiedere scusa per la mia adolescenza.
Non che abbia avuto chissà quali grilli per il capo, ma ho ben presente la mia faccia di allora, il mio “muso” quotidiano, il mio continuo nonpuoicapire-pensiero. Quindi in definitiva, quasi quasi, a loro è andata bene.

A dirla tutta, sta andando bene anche a me (e qui valgono tutti i gesti scaramantici del mondo) ma è periodo di confronto continuo tra i miei “no” e i suoi “e allora tanto vale che mi chiuda in casa e non esca più”. Sospiro (di entrambi).

Precisiamo, i “no” di sempre sono metabolizzati: a volte mi tocca ribadirli, a volte invece è lui che agisce proattivamente (“non te l’ho nemmeno chiesto, tanto mi avresti detto di no”). Sono quelli recenti che generano confronto. Quelli vanno giustificati, il perché-lo-dico-io non va più bene, e va fatto bene, con piena consapevolezza e tanta energia da parte mia.

Insomma, la sera arrivo a casa dopo che sono sveglia da 14 ore e ho parlato per gran parte del giorno con mezzo mondo. Apro la porta e il primo scoglio da superare è il resoconto della tata su commissioni, compiti, le sue malattie, le malattie di sua madre, le foto che le hanno mandato le amiche. 
Passato quello, c’è la gatta che miagola con passione come se non mangiasse da 3 giorni (mesi, forse!) mentre sono passate appena 4 ore. 
“Ma Fede dov’è?”, chiedo sia alla tata che alla gatta. 
“In camera sua”, mi risponde la tata. La gatta rimane in attesa. 
Forse fa i compiti, forse la cartella, forse sta suonando ma è sempre in camera sua. E’ il modo in cui riemerge da camera sua che mi anticipa l’andamento della serata. E’ il momento che ogni sera attendo con ansia.

CASO 1: arriva di corsa in cucina, mi corre incontro, mi abbraccia mentre ancora non ho appoggiato lo zaino del pc e mi dice “ciao mamma, sto finendo di…” pieno di energia e sorridente. Io sorrido di rimando e si allarga nella mia mente la consapevolezza che sarà una buona serata.

CASO 2: arriva con le mani nelle tasche dell’immancabile felpa, si avvicina, bacia distrattamente con sguardo disperso nel nulla, “ciao…” biascicato. A questo punto è tutto nelle mie mani: posso chiedere “tutto bene?” e, dato il la, tutto il mondo livoroso nascosto dietro lo sguardo spento mi si rovescia addosso travolgendomi come una valanga mentre mi chiedo interiormente se ho la provvida botticella da montagna nascosta nello zaino, perchè ho ancora lo zaino del pc sulle spalle. Oppure mi giro e lo faccio parlare per 10 minuti alla mia schiena, sperando che poi vada meglio. La seconda opzione non sempre funziona, quasi mai.

CASO 3: non arriva proprio, lo vado a stanare nel suo rifugio. Se mi va bene, è andato un po’ lungo con i compiti e quindi è davvero serenamente impegnato, nel qual caso si torna al caso 1.
Se invece non alza nemmeno gli occhi, non risponde se non a monosillabi, la tentazione è quella di fare finta di niente, fare tre passi indietro per uscire dalla sua stanza (senza dare le spalle per precauzione), inciampare nella gatta che è rimasta ad osservare sulla porta, rovinare all’indietro salvata dallo zaino del pc che non ho ancora appoggiato e mi protegge come il carapace di una vecchia testuggine, rivoltarmi su me stessa e strisciare sui gomiti a mo' di navigato marines per allontanarmi dalla zona della probabile deflagrazione, chiudermi nel bagno per avere accesso ai fondamentali bisogni fisici e stare lì, al riparo, recuperando le energie necessarie per affrontare l’impegnativo confronto.

E invece no, rimango lì, al centro della sua stanza quel tanto che basta a fargli alzare la testa e mostrarmi tutta la rabbia e la sofferenza che ha negli occhi. Niente di grave, sia chiaro, solo che una serie di inconvenienti quotidiani alimentati dall’ormone, conditi dal nonpuoicapire-pensiero che conosco bene, gli hanno creato un tale imbroglio di emozioni da non riuscire nemmeno a tirarle fuori a parole.
So bene di cosa si tratta, ci sono passata anche io, me lo ricordo.
“Dai, finisci che poi mangiamo”. E parliamo, aggiungo tra me e me.
Ritorno sui miei passi, poso finalmente lo zaino. La gatta ha capito che marca male e quindi è passata dai miagolii di fame smisurata a delicati “miu” che mi fanno sentire compresa.
Il gesto di nutrirla in quelle sere mi conforta, per garantire la sua serenità basta poco.
Afferro il cellulare dalla borsa e chiamo mia mamma.
“Ciao mamma, tutto bene?” (Scusami, scusami, scusami…)

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